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La gioia armata – Alfredo M. Bonanno (1)

(A Parigi, nel 1848, la rivoluzione)

fu una vacanza senza principio e senza fine (Bakunin)

I

Ma perché questi benedetti ragazzi sparano alle gambe di Montanelli? Non sarebbe stato meglio sparargli in bocca? Certo che sarebbe stato meglio. Ma sarebbe stato anche più pesante. Più vendicativo e più cupo. Azzoppare una bestia come quella può anche avere un lato più profondo e significativo, oltre quello della vendetta, della punizione per le responsabilità di Montanelli, fascista e servo dei padroni. Azzopparlo significa costringerlo a claudicare, farglielo ricordare. E poi, è un divertimento più gradevole di sparargli in bocca, col cervello che gli schizza fuori dagli occhi. Il compagno che ogni mattina si alza per andare a lavorare, che s’incammina nella nebbia, che entra nell’atmosfera irrespirabile della fabbrica o dell’ufficio, per ritrovarvi le stesse facce: la faccia del capo reparto, del conta-tempi, della spia di turno, dello stacanovista-con-sette-figli-a-carico; questo compagno sente la necessità della rivoluzione, della lotta e dello scontro fisico, anche mortale, ma sente pure che tutto ciò gli deve apportare un poco di gioia, subito, non dopo. E questa gioia se la coltiva nelle sue fantasie, mentre cammina a testa bassa nella nebbia, mentre passa ore nei treni o nei tram, mentre soffoca sotto le pratiche inutili dell’ufficio o davanti agli inutili bulloni che servono a tenere insieme gli inutili meccanismi del capitale. La gioia retribuita, quella che il padrone gli paga settimanalmente (vacanza domenicale) o annualmente (ferie), è come fare l’amore a pagamento. Si, l’aspetto esteriore è uguale, ma qualcosa manca. Cento discorsi si affastellano nei libri, negli opuscoli, nei giornali rivoluzionari. Bisogna far questo, bisogna far quest’altro, bisogna vedere le cose così, bisogna vederle come dice il tizio, come dice il caio, perché tizio e caio sono i veri interpreti dei tizi e caii del passato, quelli con le lettere maiuscole, che riempiono gli asfissianti volumi dei classici. Anche questi bisogna tenere a portata di mano. Fa parte della liturgia, il non averli è segno negativo, desta sospetti. Va bene che tenerli sotto mano può essere utile, essendo volumi ponderosi (cioè pesanti) possono essere usati per gettarli in faccia a qualche rompiscatole. Utilizzazione non nuova ma sempre gradevole della validità rivoluzionaria delle tesi del passato (e del presente). Mai discorsi sulla gioia in quei volumi. L’austerità del chiostro non ha nulla da invidiare all’atmosfera che si respira in quelle pagine. I loro autori, sacerdoti della rivoluzione della vendetta e del castigo, passano le giornate a pesare e contabilizzare colpe e pene. D’altro canto, queste vestali in bleu jeans hanno fatto giuramento di castità, quindi pretendono e impongono. Vogliono essere retribuiti per sacrifici che hanno fatto. Per primo hanno abbandonato l’ovattato ambiente della loro classe di origine, poi hanno messo le loro capacità al servizio dei diseredati, poi si sono accostumati a parlare un linguaggio non proprio e a sopportare tovaglie sporche e letti disfatti. Quindi, che li si ascolti, almeno. Sognano rivoluzioni ordinate, principi in bell’ordine, anarchia senza turbolenze. Quando la realtà prende una piega diversa, gridano subito alla provocazione e strillano fino a farsi sentire dalla polizia. I rivoluzionari sono gente pia. La rivoluzione no.

Io chiamo un gatto un gatto (Boileau)

II

Siamo tutti presi dal problema rivoluzionario di come e di cosa produrre, ma nessuno parla del produrre in quanto problema rivoluzionario. Se la produzione è la base dello sfruttamento attuato dal capitale, cambiare modo di produzione significa cambiare modo di sfruttamento, non significa eliminare lo sfruttamento. Un gatto, anche tingendolo di rosso, è sempre un gatto. Il produttore è sacro. Non si tocca. Che si santifichi, piuttosto, anche il suo sacrificio, in nome della rivoluzione, e il gioco è fatto. E che cosa mangeremo? si domandano i più preoccupati. Pane e spago, rispondono i realisti semplificatori, con un occhio alla marmitta e l’altro al fucile. Idee, rispondono gli idealisti pasticcioni, con un occhio al libro dei sogni e l’altro al genere umano. Chi tocca la produttività muore. Il capitalismo e coloro che lo combattono siedono insieme sul cadavere del produttore, purché il mondo della produzione continui. La critica dell’economia politica è una razionalizzazione del modo di produrre col minimo sforzo (di coloro che godono dei benefici della produzione). Gli altri, quelli che subiscono lo sfruttamento, devono badare a non far mancare niente. In caso contrario, come si vivrebbe? Il figlio delle tenebre, uscendo alla luce, non vede nulla come quando brancolava nel buio. La gioia lo accieca. Lo uccide. Allora la chiama allucinazione, e la condanna. I borghesi, panciuti e frolli, godono nel loro opulento far niente. Godere è, pertanto, peccaminoso. Significa condividere gli stimoli della borghesia, tradire quelli del proletariato produttore. Non è vero. I borghesi si danno una gran pena per mantenere vivo il processo di sfruttamento. Anche loro sono stressati e non trovano un momento per la gioia. Le loro crociere sono occasioni per nuovi progetti d’investimento. Le loro amanti sono quinte colonne per l’informazione nel campo del concorrente. Il dio della produttività uccide anche i suoi umili servitori. Stacchiamogli la testa, ne uscirà un diluvio d’immondizie. Il misero affamato, guardando il ricco circondato dalla sua servitù, cova sentimenti di vendetta. La distruzione del nemico prima di tutto. Ma che si salvi il bottino. La ricchezza non deve essere distrutta, ma utilizzata. Non importa che cosa essa costituisca, che veste assuma, quali prospettive d’impiego consenta. Quello che conta è strapparla all’attuale detentore per disporne liberamente tutti.

Tutti? Certamente, tutti.

E come avverrà il passaggio?

Con la violenza rivoluzionaria.

Bella risposta. Ma, in concreto, che cosa faremo, dopo aver tagliato tante teste fino ad averne a noia? Cosa faremo quando non si troverà un proprietario nemmeno a cercarlo con la lanterna?

Allora sarà il regno della rivoluzione. A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità.

Attento compagno. Qui c’è odore di contabilità. Si parla di consumo e di produzione. Si resta all’interno della dimensione della produttività. Nell’aritmetica ci si sente sicuri. Due più due fanno quattro. Nessuno potrà mai smentire questa “verità”. I numeri governano il mondo. Se lo hanno fatto da sempre, perché non dovrebbero farlo per sempre? Abbiamo bisogno tutti di cose solide, dure. Pietre su cui costruire un muro contro gli stimoli preoccupanti che ci salgono alla gola. Abbiamo bisogno tutti di oggettività. Il padrone giura sul suo portafoglio, il contadino sulla sua vanga, il rivoluzionario sul suo fucile. Aprite uno spiraglio critico e tutta l’impalcatura oggettiva crolla. L’esterno quotidiano, nella sua pesantezza oggettiva, ci condiziona e ci riproduce. Siamo figli della banalità quotidiana. Anche quando parliamo di “cose importanti”, come la rivoluzione, abbiamo sempre gli occhi fissi sul calendario. Il padrone ha paura della rivoluzione perché gli toglierebbe il portafoglio, il contadino farà la rivoluzione per avere la terra, il rivoluzionario per verificare la sua teoria. Posto in questi ternimi il problema, tra portafoglio, terra e teoria rivoluzionaria, non c’è diflerenza. Tutti questi oggetti sono puramente immaginari, sono lo specchio delle illusioni umane.

Solo la lotta è reale.

Discrimina il padrone dal contadino e stabilisce l’alleanza tra contadino e rivoluzionario. Le forme organizzative della produzione degli oggetti sono i veicoli ideologici che coprono la sostanziale illusione dell’identità del singolo. Questa identità viene proiettata nell’immaginazione economica del valore. Un codice ne stabilisce l’interpretazione. Alcuni elementi di questo codice sono in mano ai padroni. Ce ne siamo accorti con il consumismo. Anche la tecnologia della guerra psicologica e della repressione totale, sono elementi di una interpretazione dell’essere uomini a condizione che si è produttori. Altri elementi del codice sono disponibili per un uso modificativo. Non rivoluzionario, ma semplicemente modificativo. Pensiamo, ad esempio, al consumismo sociale che si sostituirà al consumismo signorile degli ultimi anni. Ma ne esistono ancora altri. Più raffinati. Il controllo autogestionario della produzione è un altro elemento del codice dello sfruttamento. E così via. Se a qualcuno viene in mente di organizzarmi la vita, questo qualcuno non potrà essere mai mio compagno. Se giustifica il suo modo di fare con la scusa che bisogna pure che ci sia qualcuno che “produca”, altrimenti tutti perderemmo la nostra identità di uomini, lasciandoci sopraffare dalla “natura selvaggia e incolta”, risponderemo che il rapporto natura-uomo è un’illusione della borghesia marxista illuminata. Perché mai si è voluto cambiare una spada in un forcone? Perché l’uomo si deve sempre preoccupare di distinguersi dalla natura?

Gli uomini, se non giungono a ciò

che è necessario, si affaticano per

ciò che è inutile (Goethe)

III

L’uomo ha bisogno di molte cose. Generalmente questa affermazione si interpreta nel senso che l’uomo ha dei bisogni, e che è obbligato a soddisfarli. Si ha, in questo modo, la trasformazione dell’uomo, da un’unità ben precisa storicamente, in una dualità (mezzo e fine nello stesso tempo). Infatti, egli si realizza nella soddisfazione dei suoi bisogni (cioè nel lavoro) ed è, quindi, lo strumento della propria realizzazione. Ognuno vede quanta mitologia si nasconde sotto queste affermazioni. Se l’uomo non si differenzia dalla natura senza il lavoro, come può realizzare se stesso nella soddisfazione dei suoi bisogni? Per far ciò dovrebbe essere di già uomo, quindi dovrebbe aver realizzato i suoi bisogni, quindi non dovrebbe aver bisogno di lavorare. La merce costruisce da se stessa la profonda utilità del simbolo. Diventa, così, punto di riferimento, unità di misura, valore di scambio. Lo spettacolo inizia. I ruoli vengono assegnati. Si riproducono. All’infinito. Senza modificazioni degne di nota, gli attori s’impegnano nella recitazione. La soddisfazione del bisogno diventa un effetto riflesso, marginale. La cosa più importante è la trasformazione dell’uomo in “cosa”, e con l’uomo tutto il resto. La natura diventa “cosa”. Utilizzata si corrompe e corrompe gli istinti vitali dell’uomo. Tra la natura e l’uomo si aprono larghi spazi, che occorre riempire. A questo provvede la stessa espansione del mercato mercantile. Lo spettacolo si allarga al punto da mangiare se stesso e la propria contraddizione. Platea e palcoscenico entrano in una stessa dimensione e si ripropongono per un livello superiore, più ampio, di riproduzione dello spettacolo stesso, e così all’infinito. Chi sfugge al codice mercantile non riceve la sua oggettivazione e cade “fuori” della sede reale dello spettacolo. Qui viene segnato a dito. Circondato dal filo spinato. Se non accetta la proposta di inglobamento, se rifiuta un nuovo livello di codificazione, lo si criminalizza. La sua “follia” è evidente. Non è consentito rifiutare l’illusorio in un mondo che ha fondato la realtà sull’illusione e la concretezza sul fittizio. Il capitale gestisce lo spettacolo sulla base della legge dell’accumulazione. Ma nessuna cosa può essere accumulata indefinitivamente. Nemmeno il capitale. Un processo quantitativo assoluto è un’illusione, un’illusione quantitativa. Ciò è stato compreso perfettamente dai padroni. Lo sfruttamento assume forme e modelli ideologici diversi proprio per garantire, in modo qualitativamente diverso, quell’accumulazione che non poteva continuare all’infinito sotto l’aspetto quantitativo. Che tutto l’insieme rientri nel paradossale e neIl’illusorio, al capitale non importa molto, perchè è esso che tiene le redini e fissa le regole. Se deve vendere l’illusione per realtà, e questo gli procura quattrini, tanto vale continuare a venderla e non porsi troppi problemi. Sono gli sfruttati che pagano il conto. È quindi loro compito accorgersi dell’illusione e preoccuparsi di individuare la realtà. Per il capitale le cose vanno bene come vanno, anche se sono fondate sul più grande spettacolo illusionistico del mondo. Gli sfruttati hanno quasi nostalgia di questa illusione. Hanno fatto il callo alle catene e ci si sono affezionati. Sognano qualche volta affascinanti sollevamenti e bagni di sangue, ma si lasciano abbagliare dalle parole delle nuove guide politiche. Il partito rivoluzionario allarga la prospettiva illusoria del capitale ad orizzonti che quest’ultimo, da solo, non potrebbe mai raggiungere.

È ancora l’illusione quantitativa a far strage.

Gli sfruttati si arruolano, si contano, si assommano, ferocissimi slogan fanno sobbalzare il cuore nel petto dei borghesi. Quanto più alto è il numero di coloro che si contano, tanto più grandi diventano la tracotanza e le pretese delle guide. Quest’ultime fanno programmi di conquista. Il nuovo potere si dispone sulle spoglie del vecchio. L’anima di Bonaparte sorride soddisfatta. Certo, profonde modificazioni nel codice delle illusioni vengono programmate. Ma tutto deve sottostare al segno dell’accumulazione quantitativa. Crescono le forze militanti, devono crescere le pretese della rivoluzione. Allo stesso modo deve crescere il tasso del profitto sociale, che si viene a sostituire al profitto privato. Il capitale entra, in questo modo, in una nuova fase illusoria e spettacolare. I vecchi bisogni incalzano sotto nuove etichette. Il dio della produttività continua a dominare senza rivali. Contarsi è bello. Ci fa credere forti. I sindacati si contano. I partiti si contano. I padroni si contano. Contiamoci anche noi. Girotondo. E quando abbiamo finito di contarci, cerchiamo di far restare le cose come prima. E se la modificazione è proprio necessaria, facciamola senza disturbare nessuno. I fantasmi si lasciano penetrare facilmente. La politica si riscopre periodicamente. Spesso il capitale trova soluzioni geniali. Allora la pace sociale cade sulle nostre teste. Un silenzio da cimitero. L’illusione si generalizza ad un grado tale che lo spettacolo assorbe quasi tutte le forze disponibili. Tutto tace. Poi si riscoprono i difetti e la monotonia della messa in scena. Il sipario si alza su situazioni impreviste. La macchina capitalistica accusa i colpi. Allora, riscopriamo l’impegno rivoluzionario. E’ accaduto nel sessantotto. Tutti con gli occhi fuori dalle orbite. Tutti ferocissimi. Ciclostilate da morirci sopra. Montagne di volantini e opuscoli e giornali e libri. Le vecchie sfumature ideologiche messe in colonna come tanti soldatini. Anche gli anarchici riscoprivano se stessi. E lo facevano storicamente, secondo le esigenze del momento. Ottusi tutti. Ottusi anche gli anarchici. Quando qualcuno si svegliava dal sonno spettacolare e, guardandosi attorno, cercava spazio e aria da respirare, e vedendo gli anarchici diceva a se stesso: finalmente! ecco con chi voglio stare. Subito dopo si accorgeva della stupidaggine. Nemmeno in quella direzione le cose andavano come sarebbero dovute andare. Anche là: ottusità e spettacolo. E questo qualcuno fuggiva. Si richiudeva in se stesso. Si smontava. Accettava il gioco del capitale. E se non lo accettava veniva messo al bando, da tutti, anche dagli anarchici. La macchina del sessantotto ha prodotto i migliori funzionari del nuovo Stato tecnoburocratico. Ma ha anche prodotto degli anticorpi. I processi dell’illusione quantitativa sono diventati visibili. Da un lato, hanno ricevuto una nuova linfa, per costruire una nuova visione dello spettacolo mercantile, dall’altro, hanno subito delle incrinature. L’inutilità dello scontro sul piano della produttività è diventata palese. Impadronitevi delle fabbriche, delle campagne, delle scuole, dei quartieri e autogestiteli, dicevano i vecchi rivoluzionari anarchici. Abbattiamo il potere sotto tutti i suoi aspetti, aggiungevano subito dopo. Ma non penetravano più a fondo, non mostravano la vera realtà della piaga. Pur sapendone la gravità e l’estensione preferivano nasconderla, sperando nella spontaneità creatrice della rivoluzione. Solo che volevano attendere i risultati di questa spontaneità con le mani sui mezzi di produzione. Qualsiasi cosa accade, quale che sia la forma creativa che prenderà la rivoluzione, dobbiamo avere i mezzi di produzione in nostro possesso, essi affermavano. Altrimenti il nemico ci sconfiggerà sul piano della produzione. E per far ciò si adattavano a compromessi di ogni tipo. Per non allontanarsi troppo dalla stanza delle decisioni spettacolari, finivano per costruire un’altra forma di spettacolo alcune volte altrettanto macabro. L’illusione spettacolare ha le sue regole. Chi vuole gestirla deve sottoporsi a queste regole. Deve conoscerle, imporle e giurarci sopra. La regola prima è che la produzione condiziona tutto. Chi non produce non è un uomo, la rivoluzione non è per lui. Perché dovremmo tollerare i parassiti? Non dovremmo forse lavorare al loro posto? Non dovremmo assicurare anche la loro sopravvivenza? E inoltre: tutta questa gente senza idee chiare e con la pretesa di voler fare di testa loro, non risultano “oggettivamente” funzionali alla controrivoluzione? Quindi, tanto vale attaccarli fin d’ora. Si sappia chi sono i nostri alleati e con chi vogliamo stare. Se dobbiamo far paura facciamola tutti insieme, inquadrati in perfetto ordine, e che nessuno metta i piedi sulla tavola o si cali le brache. Organizziamo le nostre strutture specifiche. Formiamo militanti che conoscano perfettamente le tecniche della lotta nei settori della produzione. La rivoluzione la faranno soltanto i produttori, e noi saremo là per impedire loro di fare fesserie.

No. Tutto ciò è sbagliato. In che modo potremo impedire loro di fare fesserie? Sul piano dello spettacolo illusorio dell’organizzazione ci sono tromboni molto più grossi di noi. Ed hanno fiato da sprecare. Lotta sul posto del lavoro. Lotta per la difesa del lavoro. Lotta per la produzione. Quando romperemo il cerchio? Quando finiremo di mangiarci la coda?

L’uomo deforme trova sempre degli

specchi che lo rendono bello (Sade)

IV

Che follia l’amore per il lavoro!

Che grande abilità scenica quella del capitale che ha saputo fare amare lo sfruttamento agli sfruttati, la corda agli impiccati e la catena agli schiavi. Questa idealizzazione del lavoro ha ucciso, fino ad oggi, la rivoluzione. Il movimento degli sfruttati è stato corrotto tramite l’immissione della morale borghese della produzione, cioè di qualcosa che non è solo estranea al movimento, ma gli è anche contraria. Non è un caso che la parte a corrompersi per prima sia stata quella sindacale, proprio perchè più vicina alla gestione dello spettacolo produttivo. All’etica produttiva bisogna contrapporre l’estetica del non lavoro. Alla soddisfazione dei bisogni spettacolari, imposti dalla società mercantile, bisogna contrapporre la soddisfazione dei bisogni naturali dell’uomo, rivalutati alla luce del bisogno primario ed essenziale: il bisogno di comunismo. La valutazione quantitativa della pressione che i bisogni esercitano sull’uomo, risulta, in questo modo, capovolta. Il bisogno di comunismo trasforma gli altri bisogni e la loro pressione sull’uomo. La miseria dell’uomo, oggetto di sfruttamento, è stata vista come la base del futuro riscatto. Il cristianesimo e i movimenti rivoluzionari si danno la mano attraverso la storia. Bisogna soffrire per conquistare il paradiso o per acquisire la coscienza di classe che porterà alla rivoluzione. Senza l’etica del lavoro, la nozione marxista di “proletariato” non avrebbe senso. Ma l’etica del lavoro è un prodotto del razionalismo borghese, lo stesso prodotto che ha consentito la conquista del potere da parte della borghesia. Il corporativismo risorge attraverso le maglie dell’internazionalismo proletario. Ognuno lotta all’interno del proprio settore. Al massimo stabilisce contatti (attraverso i sindacati) con i settori similari degli altri paesi. Alla monoliticità delle multinazionali si contrappone la monoliticità delle centrali sindacali internazionali. Facciamo la rivoluzione, ma salviamo la macchina, lo strumento di lavoro, l’oggetto mitico che riproduce la virtù storica della borghesia, diventata adesso patrimonio del proletariato. L’erede dei destini della rivoluzione è il soggetto destinato a diventare consumatore ed attore principale dello spettacolo futuro del capitale. La classe rivoluzionaria, idealizzata a livello di destinataria delle sorti dello scontro di classe, svanisce nell’idealismo della produzione. Quando gli sfruttati vengono rinchiusi all’interno di una classe, si sono già confermati tutti gli elementi dell’illusione spettacolare, gli stessi della classe borghese. Per sfuggire al progetto globalizzante del capitale, gli sfruttati hanno solo la strada che passa per il rifiuto del lavoro, della produzione, dell’economia politica. Ma il rifiuto del lavoro non deve essere confuso con la “mancanza di lavoro” in una società basata sul lavoro. L’emarginato cerca lavoro. Non lo trova. È spinto verso la ghettizzazione. E’ criminalizzato. Tutto ciò rientra nella gestione complessiva dello spettacolo produttivo. Occorrono al capitale, sia i produttori sia i non garantiti. Solo che l’equilibrio è instabile. Le contraddizioni esplodono e procurano crisi di vario tipo, all’interno delle quali si gestisce l’intervento rivoluzionario. Quindi, il rifiuto del lavoro, la distruzione del lavoro, è l’affermazione del bisogno del non-lavoro. L’affermazione che l’uomo può autoprodursi e autoggettivarsi attraverso il non-lavoro, attraverso le sollecitazioni di vario genere che il bisogno dei non-lavoro gli procura. Vedendo il concetto di distruzione del lavoro dal punto di vista dell’etica del lavoro, si resta interdetti. Ma come? Tanta gente cerca lavoro, è disoccupata, e si parla di “distruzione del lavoro” ? Il fantasma luddista emerge a spaventare i rivoluzionari-che-si-sono-letti-tutti-i-classici. Lo schema dell’attacco frontale e quantitativo alle forze del capitale deve restare identico. Non importano i fallimenti e le sofferenze del passato, non importano le vergogne e i tradimenti. Ancora avanti, sostenuti dalla fede in in giorno migliore, ancora avanti! Per spaventare i proletari, e spingerli nell’atmosfera stagnante delle organizzazioni di classe (partiti, sindacati e movimenti reggicoda), basta far vedere in che cosa annega oggi il concetto di “tempo libero”, di sospensione del lavoro. Lo spettacolo delle organizzazioni burocratiche del tempo libero è fatto apposta per deprimere le immaginazioni più fertili. Ma questo modo d’agire non è altro che copertura ideologica, uno degli strumenti della guerra totale che costituisce la base dello spettacolo complessivo. E’ il bisogno di comunismo che trasforma tutto. Attraverso il bisogno di comunismo il bisogno del non-lavoro passa dal momento negativo (contrapposizione al lavoro), al momento positivo: disponibilità completa dell’individuo davanti a se stesso, possibilità totale di esprimersi liberamente, rottura di tutti gli schemi, anche di quelli considerati fondamentali e ineliminabili, come lo schema della produzione. Ma i rivoluzionari sono uomini ligi ed hanno paura di rompere tutti gli schemi, compreso quello della rivoluzione, se questo – in quanto schema – costituisce un ostacolo alla piena realizzazione di quanto il concetto promette. Hanno paura di trovarsi senz’arte nè parte. Avete mai conosciuto un rivoluzionario senza un progetto rivoluzionario? Un progetto ben definito e chiaramente esposto alle masse? Che razza di rivoluzionario è colui il quale pretende di distruggere lo schema, l’involucro, il fondamento della rivoluzione? Colpendo i concetti di quantificazione, di classe, di progetto, di schema, di missione storica, ed altre simili anticaglie, si corre il rischio di non avere nulla da fare, di essere obbligati ad agire, nella realtà, modestamente, come tutti gli altri, come milioni di altri, che la rivoluzione la costruiscono giorno per giorno, senza attendere il segno di una fatale scadenza. E per fare questo ci vuole coraggio. Con gli schemi e i giochetti quantitativi si è nel fittizio, cioè nel progetto illusorio della rivoluzione, ampliamento dello spettacolo del capitale; con l’abolizione dell’etica produttiva si entra direttamente nella realtà rivoluzionaria. Lo stesso parlare di queste cose è difficile. Perché non avrebbe senso parlarne attraverso le pagine di un trattato. Mancherebbe l’obiettivo, chi cercasse di ridurre questi problemi ad un’analisi completa e definitiva. La forma migliore sarebbe il discorso simpatico e leggero, capace di realizzare quella sottile magia dei giochi di parole. Parlare seriamente della gioia è veramente una contraddizione.

Le notti di estate sono pesanti. Nelle

piccole camere si dorme male: è la

Vigilia della Ghigliottina (Zo d’Axa)